La vita, i volti...
Castello di Donnafugata 19 luglio 2009
Passione. Così può essere definito l’amore smisurato che Guido Cicero ha per la fotografia. Chi scrive lo conosce così. Figlioccio di un fotografo che lo aveva adottato spiritualmente, Guido scorrazzava da piccolo nello studio fotografico del padrino e fu subito abbagliato dalle taglienti luci dei riflettori della sala da posa. Ha conosciuto così i procedimenti antichi della fotografia, quando ogni “dilettante” acquistava il “rullino” per un procedimento fotografico (che allora non si chiamava ancora “analogico”), quando si usavano fotocellule manuali per misurare l’intensità della luce, quando il negativo veniva sviluppato al buio in una “camera obscura” segnata appena dalla presenza di una flebile luce verde-scura. E poi, gli odori acri di bromuri che annerivano le dita dei fotografi, di sali di fissaggio, iposolfiti di sodio e metabisolfiti di potassio. Una chimica che faceva del fotografo un alchimista. E ancora, la stampa del negativo su carta sensibile al bromuro d’argento, e infine lo sviluppo e il fissaggio delle copie. Tutti procedimenti intriganti che Guido ha conosciuto da piccolo, e ha interiorizzato, quando nel bagno di una bacinella, vedeva affiorare lentamente una immagine sul foglio di carta sensibile. Ed era incanto per lui quell’apparire di figure che il fotografo toglieva fuori dallo sviluppo quando la foto era satura per essere immersa nel fissaggio. Ed è lì, in tempi non recenti, con quel maestro-fotografo, che Guido Cicero acquisisce l’imprinting fotografico, il battesimo dell’arte. È qui, in quel laboratorio artigianale che germoglia e si fissa la sua passione per la fotografia. Ma i tempi cambiano, le scoperte modificano i procedimenti. Si passa così alla fotografia digitale, che, se pur rappresenta un enorme passo avanti nella ricerca, quasi rivoluzione copernicana nel campo della fotografia, lascia ciò nondimeno immutata la funzione del fotografo artista, di colui che cerca di capire la realtà che lo circonda, che vuole conoscere l’uomo, penetrare nella sua mente, sciogliere i suoi pensieri, entrare nel suo animo. Guido Cicero si rivela così un ritrattista di eccezione. Oggetto della sua ricerca è l’uomo. Per questo utilizza tutto quanto è nelle sue possibilità: tecnica magistrale, macchina fotografica adeguata, obiettivi tele e macro, luci, inquadratura, taglio, capacità di cogliere l’attimo fuggente, per bloccare, fissare un momento indicibile della realtà mutevole, che riflette qualcosa di unico. C’è nella realtà umana qualcosa che permane, un “essere” quel che si è, e c’è un“divenire”, un quid che cambia. C’è in ognuno di noi qualcosa che appare dei nostri umori e dei nostri sentimenti, e c’è qualcosa di noi che non vogliamo far conoscere a noi stessi e celiamo anche agli altri. Gioia, dolore, bellezza, sincerità, astuzia, vanità, insicurezza, possono essere espressi e intercettati da tutti, ma anche occultati. D’altro canto, se l’obiettivo della natura umana è quello mostrare agli altri il meglio di se stessi, l’obiettivo della macchina fotografica ha lo scopo di intercettare ciò che non si vede o si cerca di nascondere. Così, le foto di Guido Cicero mostrano quanto ognuno dei soggetti fotografati ha voluto offrire al fotografo e quanto il fotografo è riuscito a rubare al soggetto. Il risultato è quello che ci viene offerto da questa galleria di soggetti che rivelano la varietà di un mondo umano ricchissimo, dove ognuno può leggere quello che crede, e interpretare come vuole quello che gli appare, cioè la parte vana di ognuno di noi: la inconsistente pellicola visiva che inviamo al futuro, e conferma la nostra esistenza o perlomeno indicherà agli altri chi eravamo in quell’attimo fuggente bloccato in millesimi di secondo dalla velocità dello scatto di una macchina fotografica.
L’Io universale dell’uomo ritratto
La foto-ritratto di una persona nell’opera di Guido Cicero? È un buffo mistero. La foto fissa l’espressione di un viso. Dice il vero. Ma, non lo dice intero. Ognuno dei soggetti ripresi sta pensando a qualcosa. Forse i protagonisti si chiedono: “Ma, chi sono io? E gli altri, cosa pensano di me? Come mi percepiscono? Forse io posso aiutarli a far capire chi sono, se davanti all’obiettivo mi irrigidisco in una posa che il fotografo riprende. Così, tutti sapranno! Sapranno che… “Io sono intellettuale, scrittore, poeta. “Io” pittore di successo, “Io” critico d’arte, “Io” entità unica al mondo, inconfondibile, fissata in aeterno nella immagine che sarà consegnata alla storia futura”. E c’è ancora chi sembra dire: “A me gli occhi… Io sono bella, desiderabile, attraente, altera (inconscio desiderio di donna)”. E c’è chi sembra suggerire: “A me le luci della ribalta!” È teatro la vita. Ed è centrale il bisogno di rapportarci con gli altri mostrando il meglio del nostro poter-essere, la maschera che indossiamo, tutte le mattine e ci accompagna dall’alba al tramonto. Sino a quando si spegne la luce.
Gino Carbonaro
Collezione di volti in un click
Ha ricercato l’identità della sua terra in una collezione di volti, noti e privati, lungo un’antologia di sguardi, di silenzi sedimentati della voce non sempre espressiva della quotidianità. Guido Cicero, al castello di Donnafugata dal 19 al 26 luglio 2009, disegna un percorso fotografico in cui ogni personaggio consegnauna testimonianza intensa del sé, anzitutto attraverso la comunicatività visuale della propria mimica, quindi con una serie di metafore visive, che sono il pregio più importante del lavoro di Cicero, e che passano primariamente dallo sguardo. Occhi intenti a guardare al nucleo ardente del proprio vissuto di artista, di poeta, di musicista, di attore, di individuo vivente di opere, del quale paiono indovinarsi parole, pensieri; occhi miranti a punti di fuga esterni alla composizione, a piani incorporei, che viaggiano della passegiata dello spirito, o che chiedono risposta all’astante, fissandolo verghianamente nel bianco degli occhi. Uomini e donne ragusani o comunque vicini al mondo e all’intelligenza del fotografo, sorpresi nella verità della propria fisicità, ma reinventati, pure, in una immagine che ha saputo sintetizzare l’esistenza e, qualche volta, l’essenza del soggetto. Avvalendosi delle potenzialità patetiche del bianco e nero, degli efetti chiaroscurali della luce e delle ombre, Cicero non ambisce a quella esattezza quadrata che Baudelaire rimproverava alla fotografia intesa quale riproduzione mimetica della natura, dunque inatta all’imma-ginifico; accorcia il divario dicotomico tra ritratto fotografico, istantaneo etendenzialmente ’vero’, e ritratto pittorico, ’selettivo’ secondo Georg Simmel, capace,quest’ultimo, di enfatizzare o di annullare tratti della verità visibile in favore di elementi cui l’invenzione dell’arteficeha affidato il valore di simbolo, di arte. Mark Twain, prima di abbracciare lafotografia, ne denunciava la falsità, l’abilitàdi dipingere "innocenza senza peccato sulle facce dei ruffiani". Se è vero che riesce a ricreare, non dice bugie, il ritratto di Guido Cicero; tocca - la vagheggiava sempre Baudelaire - l’evanescenza del disegno, avvicinandosi simultaneamente alla vita del personaggio ritratto. Consegue, da quest’idea della fotografia e del sensibilissimo genere del ritratto, un approccio al personaggio che è primariamente percorso di conoscenza dell’altro, e una galleria di esseri umani disinteressatial pudore o al vezzo della maschera.
Elisa Mandarà